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dc.contributor.advisorCadoppi, Alberto-
dc.contributor.authorLanzi, Massimiliano-
dc.date.accessioned2015-06-23T08:47:49Z-
dc.date.available2015-06-23T08:47:49Z-
dc.date.issued2015-
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/1889/2717-
dc.description.abstractNel Capitolo I è stata effettuata una ricognizione generale della disciplina dell’Error Juris. Si ha avuto modo di apprezzare come il tradizionale principio dell’inescusabilità dell’ignoranza della legge avesse matrice sostanzialmente politica, fallendo ogni tentativo di contenerlo invece entro coordinate dogmatiche. Si creavano, in questo modo, situazioni di evidente ingiustizia sostanziale alle quali l’ordinamento, nella specie la giurisprudenza, poneva parzialmente freno con l’elaborazione della scusante della buona fede nelle contravvenzioni La sentenza n. 364 del 1988, che dichiarava incostituzionale l’art. 5 c.p., pur affermando il principio di colpevolezza, sullo specifico tema dell’error juris ammetteva come cause di ignoranza inevitabile sole cause oggettive, o al più oggettive-soggettive. Questo precludeva (e continua oggi a precludere) la possibilità di una effettiva imputazione colposa dell’errore di diritto. Le uniche aperture giurisprudenziali ad una valutazione soggettiva dell’inevitabilità dell’errore di diritto si riscontrano con riferimento ai reati culturali, o meglio a procedimenti in cui sono imputati soggetti con delle specificità culturali. Per il resto, il criterio di imputazione in tema di conoscibilità della legge continua ad essere, di fatto, la responsabilità oggettiva. Nella sentenza infatti si confonde la legalità con la colpevolezza. Si afferma che l’ignoranza è evitabile ogni volta in cui la legge sia oggettivamente riconoscibile. L’accertamento della conoscibilità della legge si sposta quindi dal soggetto alla legge stessa. O meglio al diritto, rientrando anche il ‘caos giurisprudenziale’ tra le cause oggettive di inevitabilità dell’errore. Ma questa è legalità, non colpevolezza. Se una legge è oggettivamente irriconoscibile significa che è stato violato il principio di determinatezza, di precisione o di chiarezza. Questo dato è in contrasto con le premesse di principio della Corte, laddove parla invece della colpa come coefficiente di imputazione minimo per la responsabilità penale. Nel Capitolo II si rappresenta come il tema dell’error juris si arricchisce con il contributo della Corte EDU, che di fatto porta avanti l’elaborazione del pensiero della corte costituzionale. La riprova del fatto che la corte costituzionale parlasse di legalità, e non di colpevolezza, sta nel fatto che la Corte EDU declina il principio di legalità proprio entro i paradigmi dell’accessibilità e, soprattutto, della prevedibilità della legge. Arriva cioè alle stesse conclusioni della corte costituzionale, pur non affrontando mai il tema della colpevolezza (se non in sud fondi c. Italia). La grande innovazione della Corte EDU, si dice, sta nel riconoscimento del diritto vivente come “fonte”, nel senso che il principio di legalità è rispettato anche nel caso in cui il cittadino possa conoscere il diritto proprio sulla base della giurisprudenza. Il giudice concorre quindi con il Legislatore nella definizione, o quanto meno nella specificazione, del precetto. Il dato è recepito dalla giurisprudenza di legittimità nazionale, e affermato in diverse sentenze. In verità, anche su questo punto, si è trattato dell’evoluzione di un tema che non era estraneo alla corte costituzionale, già nel 1988. Infatti il caos giurisprudenziale rientrava nelle cause oggettive di ignoranza inevitabile della legge. Ciò significava riconoscere il ruolo giocato dai giudici nel rendere la legge conoscibile per i cittadini: il cittadino vede e conosce l’ordinamento attraverso le sentenze dei giudici. La valutazione “colpevole” dell’errore di diritto dovrebbe sganciarsi da valutazioni oggettive, passando invece attraverso la verifica dell’adempimento del dovere di informazione, da effettuarsi secondo uno schema prettamente colposo; ovvero, con la predisposizione di una regola cautelare, la verifica della conformità del comportamento di specie rispetto all'agente modello di riferimento, il riscontro della concreta esigibilità. Il modello, così come è oggi impostato, non è idoneo a garantire il rispetto del principio di colpevolezza; ovvero a tutelare i soggetti che si trovino in una condizione di error juris incolpevole. Il migliore campo di verifica di questo dato è, come rappresentato nel Capitolo III di questo lavoro, il diritto penale dell’economia, ovvero i c.d. reati tecnici. Si analizza la distinzione tra reati naturali e reati artificiali, verificando come essa sia meno netta rispetto ad un tempo. È quindi preferibile parlare (riferendosi alla vecchia categoria dei “reati artificiali”) di “reati tecnici”, nel senso di fattispecie di reato in cui il fatto tipico si esprime attraverso categorie tecniche, che necessitano quindi di tecnici per essere comprese. Ebbene in questo settore del diritto penale il tema dell’error juris è articolato secondo un paradosso di base. Questo dovrebbe essere il settore in cui è più probabile la commissione di errori di diritto, proprio a causa dell’elevata ‘tecnicità’ delle fattispecie. Più infatti ci si allontana da fattispecie con un disvalore intrinseco, maggiore è il rischio che il precetto venga ignorato o male interpretato. Ma proprio in virtù di questa aumentata possibilità di errore, e dato anche il livello di preparazione mediamente più elevato di coloro che operano in quei settori tecnici, la presunzione di conoscenza della legge è aumentata, anziché diminuita. Il risultato è, ancora, che la conoscenza della legge opera come una presunzione quasi assoluta, senza alcuna reale apertura alla colpevolezza sull'errore di diritto. Lo stesso ragionamento si riscontra in sede convenzionale, dove la Corte EDU elabora delle presunzioni di conoscenza molto rigorose per chi esercita attività professionali, sostanzialmente in linea con la giurisprudenza nazionale. Non solo i giudici sono “intrappolati” in un labirinto di norme e fonti che rendono oggettivamente difficile individuare le giuste coordinate della giurisdizione. In quel labirinto “vagano” senza riferimenti certi anche i consociati; specie gli imprenditori, i professionisti e gli operatori economici, costretti a svolgere un’attività di fondamentale importanza sociale assumendosi un ‘rischio penale’ che nessun onere informativo e di conoscenza consente di scongiurare. Individuato il problema, è però necessario ipotizzare delle soluzioni. L’intervento del Legislatore non sembra poter essere, sul punto, risolutivo. L’istituto dell’inevitabilità dell’ignoranza della legge racchiude già in sé, se correttamente ‘letto’, un criterio di imputazione soggettiva dell’errore di diritto. Si è visto come i tentativi compiuti di estendere normativamente l’area di scusabilità dell’errore di diritto siano stati un insuccesso. Un pò a causa del diritto vivente (ad esempio con l’implicita abrogazione dell’art. 47, comma terzo, c.p.), un po’ a causa dell’introduzione di strumenti normativi già tecnicamente e dogmaticamente insufficienti a servire allo scopo (quale il caso dell’art. 15 D.lgs. n. 74/2000). La soluzione occorre trovarla in via esegetica, dovendo la dottrina contribuire ad un ripensamento applicativo e interpretativo della disciplina dell’errore di diritto. L’accertamento deve essere compiuto secondo gli schemi tipici della responsabilità colposa, ovvero come violazione di regola cautelare ed esigibilità della condotta lecita alternativa. E per fare ciò, specie nel settore del diritto dell’economia, è fondamentale riconoscere il ruolo centrale che giocano, per la riconoscibilità del diritto da parte degli operatori economici, i consulenti privati, gli esperti. Questi costituiscono il principale, e a volte unico, occhio con il quale il consociato guarda l’ordinamento. La storica scusante della buona fede si fondava sul concetto che solo i pareri provenienti da organi pubblici meritino l’affidamento incolpevole del cittadino. La fonte informativa privata, invece, sarebbe per sua natura inaffidabile, stante appunto il carattere privato e la conseguente carenza di indipendenza, che la distinguerebbe dalla fonte pubblica. Ebbene, questa concezione deve decisamente essere superata, e occorre che ai pareri privati venga riconosciuto il medesimo grado di affidabilità incolpevole oggi riservato alla fonte pubblica, pur entro rigorosi parametri di una valutazione colposa, cioè cautelare. A tanto conducono due motivi. Il primo, come detto, è politico e sociale, nel senso che non c’è ormai settore dell’economia in cui al singolo cittadino sia consentito di svolgere un’attività senza l’apporto di consulenti giuridici, interni o esterni alla propria struttura. Il secondo è più tecnico, e si fonda sui numerosi esempi di una rilevanza pubblicistica ormai riconosciuta a soggetti privati esperti, in molti ambiti. Si considerino in questo senso gli organi di controllo societari, gli organismi di vigilanza ex D.Lgs. n. 231/2001, e più di recente il fondamentale ruolo pubblicistico riconosciuto ai professionisti privati nelle procedure concorsuali a carattere negoziale, introdotte da diverse disposizioni della Legge Fallimentare.it
dc.language.isoItalianoit
dc.publisherUniversità di Parma. Dipartimento di Giurisprudenzait
dc.relation.ispartofseriesDottorato di ricerca in Diritto penale.it
dc.rights© Massimiliano Lanzi, 2015it
dc.subjectIgnorance of lawit
dc.subjectMistakeit
dc.subjectErrorit
dc.titleL'errore di diritto. Dagli sviluppi sul piano nazionale e convenzionale, ad alcune applicazioni nel diritto d'impresa.it
dc.typeDoctoral thesisit
dc.subject.miurIUS/17it
Appears in Collections:Giurisprudenza. Tesi di dottorato

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