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dc.contributor.advisorParisella, Antonio-
dc.contributor.authorBecchetti, Margherita-
dc.date.accessioned2010-06-07T08:20:29Z-
dc.date.available2010-06-07T08:20:29Z-
dc.date.issued2010-05-21-
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/1889/1341-
dc.description.abstractFin dai primi decenni del Novecento, e in particolare in seguito ad alcuni episodi che avevano fatto sbalzare proteste e tumulti dei borghi parmigiani agli onori della cronaca nazionale – lo sciopero agrario del 1908 o le Barricate antifasciste del 1922 –, l’Oltretorrente e i suoi abitanti si sono conquistati una fama di popolo ribelle e sovversivo. Una fama largamente edulcorata da un altro mito, quello del “buon proletario”, e declinata in leggenda dalla penna di scrittori e giornalisti, che ha poi permeato di sé memorie, racconti, biografie e, talvolta, anche ricostruzioni storiografiche di pretesa scientifica. Una fama di quartiere rissoso e sanguigno ma anche buono e solidale, «isola di ribellione e bolscevismo» ma anche umanità fiera e generosa, «popolo facile ad accalorarsi» ma anche «capace di darsi regole e di rispettarle». Un mito che, per lo meno fin dall’ultimo decennio dell’Ottocento, da quando cioè il quartiere fu protagonista di alcune vigorose rivolte – come quella contro la guerra d’Africa o quella seguita all’uccisione di Pietro Cassinelli, entrambe del 1896 – si radicò con forza anche tra le stesse classi popolari, il cui collante identitario si forgiò in una visione del mondo orgogliosamente antagonista, che sempre più, fino all’egemonia sindacalista rivoluzionaria e oltre, si pose come alternativa a quella borghese, come indicazione, e già embrionale realizzazione, di un “nuovo liberato mondo”. Con i fatti del 1896 – più giorni di sommosse popolari, un morto, feriti, esercito, intervento del governo, giornalisti da tutta Italia – l’Oltretorrente divenne dunque il riconosciuto (e anche oleografico) mito sovversivo, positivo o negativo secondo i diversi osservatori, che sarebbe poi volato sempre più alto col nuovo secolo. È stata poi anche la grande diffusione del racconto delle Barricate del 1922, e in particolare l’impianto mitico che di esso si è trasmesso, che ha contribuito a rafforzare intorno al quartiere questo alone leggendario, favorito, negli ultimi anni, dalla fortuna di alcune operazioni letterarie ad esso dedicate, come il romanzo Oltretorrente di Pino Cacucci. E questo alone, per la sua forza simbolica, è divenuto anche riferimento di soggetti politici e mobilitazioni molto distanti nelle forme e nel tempo, come i movimenti giovanili degli anni Settanta che, spesso, guardarono al mito dell’Oltretorrente e delle sue vicende come esperienza storica da cui trarre parole d’ordine e modalità d’azione. Gli esempi potrebbero essere tanti, dalla fotografia della barricata di via Bixio sulla testata di «Lotta continua», al radiodramma con cui Nanni Balestrini raccontò nel 1973, su Radio Rai, i giorni delle Barricate, fino ai diversi spettacoli teatrali di gruppi militanti che in quegli anni ne rimisero in scena le giornate. Anche in anni più recenti, soprattutto in seguito ai fatti di Genova 2001 e alla ripresa di una certa mobilitazione sociale contro le strategie politiche della globalizzazione capitalistica, l’agosto 1922 e il ribellismo d’Oltretorrente sono tornati ad essere riferimento storico e politico per il movimento antifascista. L’immagine mitica del ribellismo parmense, dunque, negli anni ha sempre prestato il fianco ad un uso politico, senza però essere mai confrontata con la sua concretezza storica. Per evitare che il mito prenda il sopravvento si è dunque svolto qui un minuzioso lavoro di indagine sulle rivolte che segnarono la storia della città, e del quartiere in particolare, dal 1868 al 1915, collocando quella tumultuante sequenza di avvenimenti nella trama dei molteplici aspetti della vita quotidiana, sociale e politica entro cui essi si iscrissero. Il primo obiettivo di questa ricerca, dunque, è stato quello di confrontare il mito dell’Oltretorrente e del suo ribellismo con la sua concretezza storica, non solo per verificarne la fondatezza – senza dubbio giustificata da una lunga tradizione di lotte e antagonismo – ma anche per fondare e ricostruire su base documentaria la trama di quei molteplici episodi di sovversione sociale e politica. Il cuore della ricerca, dunque, è rappresentato dall’analisi delle principali rivolte, come dei più ordinari scontri con le forze dell’ordine, che hanno segnato la storia delle classi popolari parmensi dal 1868 al 1915; analisi che, di volta in volta, si è soffermata sui protagonisti dei tumulti, sulle dinamiche di piazza, sugli esiti, sui rapporti con altri soggetti sociali della città e, in taluni casi, sulle reazioni che le sommosse suscitarono nella società borghese e nelle istituzioni dello Stato liberale. Ne è uscito il ritratto complesso – certamente arricchito dalle diverse sfaccettature che il conflitto assunse e mostrò nel corso degli anni – di un ambiente sociale in cui tumulti, mobilitazioni sindacali, rivolte, manifestazioni di protesta, risse o scontri con le forze dell’ordine non erano certo fatti rari o eccezionali. Un ritratto che dà corpo e sostanza all’attitudine “barricadiera” di “Parma vecchia”, prima di quell’evento memorabile, per la città e per il movimento operaio in generale, che furono le vittoriose barricate contro il fascismo nell’agosto 1922. E proprio in merito a queste ultime, già nel 1983, Luciano Casali scriveva dell’impossibilità di comprenderle se non collocandole «adeguatamente […] nella tradizione e nella storia di Parma e dei suoi borghi popolari». I sentieri della ricerca sono stati molteplici. Innanzi tutto si è tentato di comprendere gli obiettivi delle rivolte e le forme di mobilitazione scelte ma, soprattutto, si è cercato di cogliere in esse il ruolo dei diversi soggetti sociali e politici che di volta in volta vi si trovarono coinvolti e di definire la partecipazione popolare nei suoi aspetti più caratterizzanti. Non si è voluta fare una storia del movimento operaio, né una storia delle sue organizzazioni, quanto mostrare la relazione continua, difficile e certamente instabile tra il ribellismo istintivo delle classi popolari e le culture politiche che, per lo meno dalla seconda metà dell’Ottocento, tentarono di contendersi il ruolo di guida sulla via dell’emancipazione dei ceti subalterni. Una delle prime domande poste alle fonti, infatti, ha riguardato proprio il rapporto tra il conflitto sociale e la presenza organizzata di forze politiche – il repubblicanesimo mazziniano e il garibaldinismo prima, l’anarchismo, il socialismo e il sindacalismo rivoluzionario poi – che con esso hanno tentato di entrare in relazione, proponendogli parole d’ordine, modalità di protesta, leader e protagonisti e incanalandolo verso prospettive rivoluzionarie o, comunque, di radicale cambiamento della società. Altro percorso di ricerca è stato il calare le rivolte nella topografia della città, seguire il loro svolgersi tra strade e piazze, individuarne i bersagli concreti (caserme oltre che stabilimenti industriali, granai o tipografie di giornali), seguire i tracciati dei cortei o delle folle tumultuose, ritrovare luoghi e modalità di mobilitazione costanti e ricorrenti pur a distanza di anni. In ogni rivolta, poi, si è cercato di cogliere il segno dell’affermazione di un gruppo, dell’immagine che esso diede o volle dare di se stesso, delle divergenze e delle sue gerarchie interne, così come dei rapporti che quel gruppo aveva con il resto della società. Allo stesso tempo, si è riflettuto sui luoghi e sugli itinerari delle dimostrazioni, sull’ordine spaziale che essi costruirono di volta in volta, ampliando negli anni la geografia del conflitto che, mentre ritrovava alcuni dei suoi riferimenti principali nelle dinamiche di protesta preindustriale, arricchì via via la propria fisionomia con altri spazi e territori fortemente legati al “mondo nuovo”. Infine, si è tentato di verificare in che modo tumulti e sommosse hanno aderito alle pieghe della società locale, attraverso l’analisi dei partecipanti alle rivolte, o meglio di quella parte di essi che incappò nelle reti della repressione e subì arresti o processi. Ciò ha permesso di scomporre il volto anonimo e collettivo del quartiere “ribelle”, di recuperare alcuni dei segmenti sociali che lo componevano e di analizzarne le caratteristiche anagrafiche e professionali. L’obiettivo più ampio che questa ricerca si è posto è stato, dunque, quello di superare i limiti di una storiografia poco attenta alle “folle tumultuanti” e troppo concentrata sulle “presenze organizzate”, sul protagonismo politico di alcuni attori, sui quadri dirigenti, così come sulla centralità di alcuni momenti – per quanto significativi – della storia della città. Come ha scritto Paolo Macry, infatti, gli storici hanno talvolta identificato «la proteste popolari con le vicende dei partiti e dei sindacati operai, facendo implicitamente propria la tendenza di quelle organizzazioni a rappresentare tutto il conflitto sociale e a determinarlo con la propria politica». L’arco di tempo preso in esame da questa ricerca ripercorre quasi cinquant’anni di storia, dal 1868 al 1915. Non è certo il lungo periodo su cui agilmente si muovono le riflessioni degli storici dell’età moderna o medievale ma, nell’ambito della storia contemporanea, è pur sempre una fase di media durata, che permette di confrontare eventi legati, se non a epoche diverse, per lo meno a contesti sociali e politici differenti. I fatti qui ricostruiti e analizzati, infatti, ebbero come sfondo e riferimento contingente fasi anche molto distanti tra loro della storia italiana: dai tempi immediatamente successivi all’unificazione – ancora per certi versi percorsi dall’entusiasmo delle imprese garibaldine e dal fervore unitario – agli anni che chiusero il secolo e che Antonio Gramsci definì «decennio sanguinoso», per la repressione violenta di qualsiasi conflitto sociale o moto di piazza che contrassegnò la politica interna dello Stato liberale. E infine l’età giolittiana, con la sua “oppiacea” politica di assorbimento del conflitto, il cui «quietismo» fu travolto, appunto, dalle piazze tricolorate e ricolme di patriottica o rivoluzionaria violenza della primavera 1915. Il 1868 fu l’anno che precedette l’applicazione della tassa sulla macinazione dei cereali, l’anno in cui di essa si parlò e discusse in Parlamento e sui giornali e, a Parma, fu anche l’anno in cui le classi popolari, per la prima volta dalla nascita dello Stato unitario, si sollevarono contro le autorità che, con quell’imposta, venivano meno a quella legge non scritta ma condivisa che, nelle epoche passate, aveva segnato il rapporto tra governanti e sudditi e la cui infrazione offriva una sorta di legittimazione per la rivolta. Si trattò però, questa volta, di qualcosa di più di una semplice «rivolta di pancia», tanto che, a differenza delle campagne in cui i tumulti scoppiarono all’entrata in vigore della legge – quando i contadini si trovarono di fronte all’impossibilità concreta di macinare – i disordini in città erano scoppiati addirittura un anno prima e avevano trovato un certo sostegno nella borghesia radicale. Si era mostrata dunque in essi, per la prima volta, una componente “politica” che li spingeva ben al di là del soddisfacimento di bisogni e l’ottenimento di risultati immediati che, ancora, caratterizzavano le diffusem anifestazioni “in” piazza di tradizione preindustriale. Il 1915 fu l’anno delle imponenti manifestazioni interventiste che, a Parma, furono animate soprattutto dai sindacalisti rivoluzionari della Camera del Lavoro, egemoni in Oltretorrente e dunque tra le classi popolari della città per lo meno dal 1907, e ora protagonisti, insieme a nazionalisti e democratici, di una turbolenta serie di manifestazioni di piazza volte a muovere pressioni sull’opinione pubblica e sulle incertezze del governo. Una primavera di mobilitazioni, dunque, con caratteri e attori inediti rispetto alle sommosse passate e che, anche per questo, chiuse una fase nella storia del conflitto sociale e politico cittadino, delle sue forme e dei suoi protagonisti. Solo alla luce della scelta interventista e dei quattro lunghi anni di guerra, infatti, è possibile comprendere il declino dell’egemonia sindacalista rivoluzionaria e l’offuscarsi di un astro quale fu quello di Alceste De Ambris a favore della nuova e indiscussa leadership popolare di Guido Picelli. Dopo l’apparente calma degli anni della Grande guerra, infatti, prima il “biennio rosso” del 1919-20 e poi quello “nero” del 1921-22 furono teatro, in città, di mobilitazioni di piazza e disordini interpretati da nuovi protagonisti e nuove organizzazioni politiche che, col costante, diffuso e quotidiano uso delle armi da fuoco e delle pratiche militari negli scontri, si richiamavano ideologicamente non più ad un’utopia libresca tutta da costruire – l’Ottantanove o il “liberato mondo” – ma ad una realtà sociale in formazione, quella della Russia dei Soviet, quella di un governo che, per la prima volta nella storia, era – o meglio appariva – come “ il governo degli operai e dei contadini”. In mezzo, tra il 1868 e il 1915, tra le speranze dei primi anni dell’Unità d’Italia e la prima guerra mondiale, si avvicendarono decenni fortemente segnati dal conflitto sociale e politico e dal protagonismo delle classi popolari d’Oltretorrente che, in molte occasioni, insorsero contro i simboli e i poteri dello Stato, mostrando una carica antagonista presto rinomata e resa celebre in gran parte d’Italia dalla penna entusiasta o indignata dei corrispondenti dei vari giornali che, ogni volta, si recavano a Parma per raccontare le gesta del suo popolo indocile. Come si vedrà, altre date, poi, in questa lunga sequenza di rivolte, moti, tumulti, sommosse e risse, recano in sé un valore periodizzante sul terreno della protesta di piazza, cuore di questa ricerca. Come il 1896, anno delle proteste contro la guerra d’Africa e della rivolta seguita all’omicidio di Pietro Cassinelli, episodi in cui il quartiere insorse violentemente contro la forza pubblica, nel primo caso organizzando una sorta di difesa fortificata in quartiere, nel secondo assaltando e assediando la caserma di Pubblica sicurezza di via d’Azeglio. Altra data periodizzante fu senza dubbio il 1908, l’anno del grande sciopero agrario sindacalista rivoluzionario che si concluse con violenti scontri in borgo delle Grazie, con l’occupazione da parte della truppa della Camera del lavoro, e con l’arresto di numerosi dirigenti e organizzati dell’istituto camerale.it
dc.language.isoItalianoit
dc.publisherUniversità degli Studi di Parma. Dipartimento di Storiait
dc.relation.ispartofseriesDottorato di ricerca in Storia Contemporaneait
dc.rights© Margherita Becchetti, 2010it
dc.subjectParmait
dc.subjectOltretorrenteit
dc.titleOltretorrente. Rivolte e conflitto sociale a Parma. 1868-1915it
dc.typeDoctoral thesisit
dc.subject.soggettarioParma - Rioni e quartieri - Oltretorrente - 1868-1915it
dc.subject.soggettarioParma - Storia sociale - 1868-1915it
dc.subject.miurM-STO/04it
dc.description.fulltextopenen
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