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dc.contributor.advisorToccafondi, Fiorenza-
dc.contributor.authorColombo, Chiara-
dc.date.accessioned2009-06-05T11:10:15Z-
dc.date.available2009-06-05T11:10:15Z-
dc.date.issued2009-
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/1889/1053-
dc.description.abstractLa “cosa materiale” è, per Husserl,l’oggetto in quanto oggetto d’esperienza sensibile, al di qua delle sue eventuali connotazioni estetiche, assiologiche, teoretiche, pratiche e così via e si può sostenere che, nel descriverlo e studiarlo, il fenomenologo proponga un approccio particolarmente fecondo, rispetto ad altri studi dedicati allo stesso oggetto, sotto almeno due punti di vista. Si consideri innanzitutto che, spesso, nei dibattiti attuali relativi a questioni di ontologia si ha la tendenza a considerare le cose principalmente a partire dalle parole che le nominano. Spesso, cioè, si tende a riferirsi agli oggetti d’esperienza conferendo un’importanza teorica e metodologica centrale, se non preponderante, ai termini usati per indicarli; si tende, cioè, a concentrarsi sul linguaggio, preso come grimaldello per affrontare la descrizione, la classificazione e la comprensione del mondo che ci circonda, più che sulle cose stesse nelle loro forme e caratteristiche proprie, collocandosi, dunque, già in partenza su un piano diverso da quello a cui esse appartengono. Questo, sia chiaro, non è per principio né sbagliato né illegittimo, ma non è l’unica via possibile per impostare un’indagine ontologica. La prima peculiarità del discorso husserliano sulla cosa materiale sta allora, al contrario, nel tentativo di formulare una descrizione e una classificazione degli oggetti d’esperienza attenendosi al piano dell’esperienza stessa, e cioè a quella dimensione prelinguistica in cui gli enti, di cui l’ontologia si occupa, prendono forma. Questo può risultare quindi particolarmente interessante perché permette all’ontologia di costruire le sue categorie sulla base delle proprietà essenziali espresse dalle cose stesse prima che i concetti intervengano a codificarle. In questo tipo di approccio risiede dunque uno dei punti di maggior originalità e fecondità della riflessione husserliana sulla cosa materiale. Esso, però, è reso possibile da un presupposto ben preciso che parallelamente costituirà, forse, uno degli aspetti più controversi e spinosi da affrontare e che consiste nella convinzione che gli oggetti esperiti siano in possesso di una forma, di un’essenza autonoma, precategoriale, indipendente dall’attività di categorizzazione concettuale e dalle espressioni linguistiche che l’uomo può applicarvi. Se così non fosse, se gli oggetti esperiti non potessero vantare una conformazione, un’essenza autonoma da quella imposta loro dalle nostre forme categoriali, non avrebbe senso fondare in essi, piuttosto che nel linguaggio e nei concetti, la loro descrizione e catalogazione ontologica. Questa tesi, tuttavia, non è immediatamente accettabile per nessuna delle due tradizioni filosofiche – empirismo e trascendentalismo kantiano – all’incrocio delle quali Husserl consapevolmente e volutamente si colloca. Alla sua discussione e difesa – necessaria per valutare nel giusto modo la nozione husserliana di “cosa materiale” – dunque, bisognerà dedicare molti sforzi e molte pagine in diversi momenti di questo lavoro. Oltre a questo, il secondo punto di particolare interesse insito nella descrizione ontologica della cosa materiale che Husserl propone sta nel fatto che essa è sempre svolta non solo in relazione alla cosa in sé e per sé, ma anche in costante riferimento al soggetto che la guarda, la comprende e eventualmente la descrive. Se anche si accetta l’idea per cui le cose del mondo possiedono una forma a priori loro propria, indipendente dalla nostra spontanea attività intellettiva, resta vero che esse ci si presentano come tali, sono da noi riconosciute e hanno per noi un significato anche in relazione a come sappiamo vederle e comprenderle, dunque è bene che nella loro descrizione e classificazione ontologica si guardi anche al loro darsi a un soggetto che le coglie, e di questo Husserl tiene conto. Ciò significa, in altre parole, che l’indagine husserliana sulla cosa materiale è collocata all’interno di un pensiero dall’impostazione prettamente trascendentale che per descrivere l’oggetto d’esperienza vuole programmaticamente mettere a fuoco anche le condizioni di possibilità del formarsi di quest’ultima; condizioni che, per Husserl, risiedono in parte nell’oggetto, con le sue forme e caratteristiche intrinseche, precategorialmente offerte, e in parte nel soggetto che sa cogliere e riconoscere gli oggetti sensibili solo secondo sue ben precise modalità esperienziali. La descrizione ontologica della cosa materiale per Husserl sembra dunque inscritta, secondo uno schema a cerchi concentrici, all’interno di una ben precisa teoria dell’esperienza di cui, in questo lavoro, si cercheranno quindi di ricordare i termini sia ex parte objecti sia ex parte subjecti. Questo, allora, può risultare particolarmente significativo perché permette di collocare il discorso sull’oggetto d’esperienza in una cornice più ampia e completa, che tenga conto di tutti i fattori capaci di incidere, in maniera più o meno essenziale, su ciò che le cose sono o, per lo meno, sul modo con cui si mostrano. Allo stesso tempo, però, quest’impostazione complessa e articolata costringerà anche a mettere in luce, forse, la presenza di alcune oscillazioni teoriche, insite nella fenomenologia husserliana, tra l’esperienza empirica intesa come fondamento dell’esperienza e anche della conoscenza e la conoscenza intesa come sigillo ultimo dell’esperienza stessa. Nello specifico, visto che la descrizione ontologica della cosa materiale formulata da Husserl va collocata al centro della sua teoria dell’esperienza, la prima parte di questo lavoro sarà dedicata appunto a questo tema, al fine di tratteggiare lo sfondo teorico in cui l’indagine proposta in Ideen II si staglia. Per questo, per prima cosa si ricorderà brevemente cosa Husserl intende per coscienza, essendo questa, nel lessico del fenomenologo, la protagonista di tutte quelle operazioni soggettive che conducono alla formazione dell’esperienza. In particolare, attraverso una ridiscussione dei concetti di “intenzionalità”,”noesi” e “noema”, ci si inscriverà qui in quella tradizione critica che legge il fenomenologo come un realista e non come un idealista – benché nell’ambito specifico dell’idealismo trascendentale –. Così facendo, infatti, oltre a chiarire i termini in cui il fenomenologo pone la cosa materiale, si potrà anche cominciare concretamente ad argomentare in favore dell’idea che l’esperito sia autonomo e preformato rispetto alle nostre attività mentali di comprensione e categorizzazione: proprio mostrando le implicazione realiste, e di un realismo diretto, insite nei concetti di intenzionalità, noesi e noema, si potrà mostrare che il mondo dell’esperienza sensibile e prescientifica è percepibile, secondo Husserl, nelle sue effettive caratteristiche prima che intervenga l’intelletto a metterle in forma, anche se non si può che coglierlo tramite la soggettività che, dunque, deve essere intesa non come un filtro deformante posto sulle cose esterne ma come ciò in cui e a cui esse si manifestano. Questo discorso è capitale per la nozione di cosa materiale: se gli oggetti indagati dal fenomenologo fossero meramente oggetti mentali, come taluni hanno sostenuto facendo leva sulle nozioni di “epoché” e di “idealismo trascendentale”, o se fossero determinati, nella loro conformazione, dalla soggettività che li coglie, la descrizione della cosa materiale che vi è formulata risulterebbe quanto mai evanescente e indebolita, mentre la peculiarità dell’approccio ontologico husserliano, almeno nell’interpretazione che qui si sostiene, risiede proprio nel forte peso conoscitivo e nell’autonomo e preciso statuto ontologico che Husserl riconosce agli oggetti dell’esperienza sensibile. Come ulteriore argomento in favore di questo approccio, e come necessaria precisazione della cornice teorica e metodologica in cui Husserl qui si muove, dopo aver specificato il significato e le implicazioni della nozione di “coscienza” da lui adottata, ci si soffermerà sui tipi di atti intenzionali che, a suo parere, sono correlati all’afferramento della cosa materiale e, così facendo, si avrà occasione di definire altri due punti salienti di questa indagine. Con essi si potrà infatti mostrare, innanzitutto, in che senso per Husserl la cosa materiale è il sostrato, la base, il fondamento di ogni altro tipo di esperienza di oggetti che solo materiali non sono, di modo tale da lasciar intendere che approntare una descrizione corretta e veridica di questo genere di oggetto è un modo per porre le basi per una descrizione corretta e veridica per ogni altro tipo di oggettualità, sia essa estetica, pratica e così via. In secondo luogo, attraverso gli atti implicati nell’esperienza della cosa materiale si potrà iniziare a profilare una problematica propria di questa trattazione husserliana, che sarà poi meglio scandagliata nell’ultima parte di questo lavoro, relativa al rapporto che il fenomenologo traccia tra esperienza e conoscenza: un rapporto non sempre, forse, univoco e lineare. Infine, oltre a questa lettura in senso realista di nozioni classiche della fenomenologia husserliana come quelle di noesi, noema e intenzionalità e oltre all’analisi dei tipi di atti coinvolti nell’esperienza della cosa materiale, la prima parte di questo lavoro si concluderà con una disamina sul tema delle “sintesi passive”, tipico di alcune opere mature di Husserl come Erfahrung und Urteil e degli scritti poi fatti confluire in Ideen II, anch’esso utile a sostenere la sua convinzione che le cose sensibili hanno una forma autonoma rispetto alla spontaneità del soggetto che le coglie. Con questa nozione, infatti, descrivendo l’esperienza nel suo stesso sorgere più remoto con gli stimoli più elementari provenienti dal mondo esterno, Husserl, sottolinea come essa non si formi grazie a nessi dovuti all’abitudine né in virtù dello intervento di categorie soggettive destinate a mettere in forma il materiale ricevuto dai sensi, altrimenti amorfo, ma si presenti come già dotata, appunto, di una struttura propria che sta al soggetto raccogliere, riconoscere e successivamente categorizzare, esprimendo in parole e in concetti quelle caratteristiche e quei nessi tra caratteristiche che essa già mostra sul piano precategoriale della sensibilità. Alla luce di questi argomenti, per concludere la prima parte di questo lavoro, che è sostanzialmente volta a delineare la giusta cornice in cui la descrizione ontologica della cosa materiale operata da Husserl va collocata, si sosterrà allora che questi può essere indicato come – per usare un’espressione invalsa nel dibattito filosofico più recente – un teorico del contenuto non concettuale della percezione. Il suo pensiero sarà quindi sottoposto alle obiezioni attualmente sollevate da chi nega questo tipo di approccio. Si procederà poi nel tentativo di confutare tali obiezioni, con l’intento di prospettare argomenti convincenti in favore della teoria di Husserl e della tesi da questi propugnata circa la maggior ricchezza e l’autonomia dell’esperito rispetto al concepito. Una volta definiti i cardini e lo sfondo teorico della teoria dell’esperienza in cui la nozione husserliana di cosa materiale deve essere collocata, nella seconda parte del lavoro si passeranno in rassegna le caratteristiche ontologiche essenziali di quest’ultima; quelle caratteristiche, cioè, che secondo Husserl un oggetto deve esibire per essere considerato a ragione una cosa materiale. Si vedrà allora che essa deve essere caratterizzata da una durata e da una collocazione nel tempo oggettivo del mondo, nonché da una collocazione spaziale, e cioè da un posto nel mondo; poi, visto che avere un posto nello spazio significa occuparne una porzione, si vedrà che essa deve essere dotata anche di un’estensione, e dunque di confini precisi in cui si inscrive la sua forma. Se questi primi tre aspetti non sembrano destare problemi, la situazione si complica nei passaggi successivi. Secondo Husserl, se la cosa ha dei confini precisi, allora deve anche avere delle qualità secondarie che li riempiano, visto che l’estensione delle cose a suo parere è legata strettamente ad alcune classi di qualità sensibili, come il colore o la tessitura tattile, che sono da essa inscindibili per una necessità a priori dovuta agli stessi contenuti d’esperienza, e non al modo con cui questi sono pensati dal soggetto in virtù delle sue categorie mentali o delle sue abitudini precedenti. Riferendosi a questo livello di costituzione della cosa materiale, che Husserl definisce “fantasma” o “schema sensibile riempito”, ci si soffermerà allora sul tema dell’”a priori materiale” – espressione con la quale egli indica il legame essenziale, appena ricordato, tra l’estensione e le sue qualità riempienti – da esso prepotentemente chiamato in causa: un tema, questo, capace di suscitare ancora oggi accesi dibattiti tra i lettori di Husserl e senza il quale la tesi dell’autonomia della cosa materiale dall’attività categoriale del soggetto esperiente mancherebbe di uno dei suoi argomenti più forti. Grazie a questa nozione, infatti, alcune tra le cosiddette “qualità secondarie”, considerate dalla tradizione filosofica moderna come dipendenti dal soggetto esperiente, e dunque fonte di errore e di inganno, sono dichiarate a priori necessarie per le cose sensibili. In questo modo, dunque, alcuni tra gli aspetti qualitativi tipici degli oggetti percepibili non sono più considerati un accessorio dipendente dall’osservatore e un ostacolo per una corretta conoscenza del mondo, ma sono fatti rientrare nel novero delle sue caratteristiche essenziali, a tutto vantaggio del peso ontologico e gnoseologico attribuito agli oggetti dei sensi. Ci si soffermerà quindi con una certa attenzione su alcune obiezioni sollevate a questa nozione propria della fenomenologia husserliana, prendendo una posizione intermedia tra quella di chi considera l’a priori materiale come un nesso, in fondo, meramente formale e chi invece sostiene che gli oggetti d’esperienza possono aspirare solo a una necessità di fatto e non di principio poiché le loro caratteristiche non sono mai pure e a priori ma sempre storicamente determinate e relative a certi contesti esperienziali e culturali, al contrario di quanto Husserl sostiene. Con altrettanta attenzione ci si dovrà poi soffermare sull’ultima caratteristica considerata da Husserl come essenziale per la costituzione della cosa materiale: la causalità. Per la costituzione della cosa materiale, infatti, le proprietà fin qui elencate non bastano: una collocazione spazio-temporale e uno schema sensibile riempito a ben vedere sono proprie anche di ciò che “cosa materiale” non è, come ad esempio un miraggio – si pensi all’oasi che erroneamente posso credere di vedere in pieno deserto – . Perché si possa parlare di “cosa materiale”, l’oggetto in esame deve invece poter intrattenere anche delle relazioni causali col mondo circostante e col soggetto che lo coglie: sulla materialità di un oggetto che si deforma sotto la pressione delle mie dita, o che fa resistenza alla mia forza non ho certo dei dubbi, né ho remore nel classificare come “cosa materiale” la palla che, rotolando su un piano, nella sua corsa abbatte il birillo con cui è entrata in contatto. La possibilità di calarsi in una trama di rapporti causali diventa quindi la cifra della cosa materiale stessa. In questo modo, però, la garanzia della materialità dell’esperienza finisce così per essere affidata a un elemento – la causalità – che a ben vedere risulta per vari aspetti problematico. Infatti, a differenza di quando accade con le precedenti proprietà della cosa materiale, e cioè con la sua caratterizzazione spazio-temporale e con il suo porsi come forma riempita, al cui coglimento sono preposte le sintesi passive, Husserl non spiega come si possa percepire la causalità e sembra, inoltre, porre sotto questa etichetta tipi di esperienze e tipi di relazioni tra soggetto e oggetto o tra oggetto e oggetto anche molto diverse tra loro. Per questo, questo livello dell’esperienza resta per certi versi oscuro nella sua genesi e nelle sue caratteristiche, pur essendone il culmine. Per iniziare a chiarire la questione ci si appellerà quindi in principio alle riflessioni proposte, sul tema della causalità, da studiosi diversi da Husserl ma appartenenti a tradizioni di pensiero che, mutatis mutandis, presentano delle affinità teoriche e delle parentele storiche con la fenomenologia, come la psicologia della Gestalt. Attraverso il raffronto con esse si potrà osservare, in parte per analogia e in parte per differenza, che il discorso di Husserl sulla causalità si svolge lungo un sentiero non sempre lineare e facile percorrere. Si vedrà cioè che il fenomenologo da un lato intende descrivere unicamente i nessi causali propri del percepito, dei fenomeni, attenendosi al piano della semplice esperienza quotidiana, senza addentrarsi in quelle relazioni invisibili, di cui la chimica e la fisica si occupano, che regolano in maniera rigorosa, universalmente studiabile e prevedibile oggettivamente i rapporti tra le cose e i loro mutamenti a livello microscopico, restando con ciò perfettamente in linea con il resto della sua descrizione della cosa materiale, considerata soltanto nelle sue caratteristiche fenomeniche, percepibili anche nell’ambito dell’esperienza ingenua del mondo. D’altro lato, però, si potrà anche osservare che, pur concentrandosi unicamente sul piano dei fenomeni, egli non mira a occuparsi della causalità meramente percepita – che può anche essere illusoria – ma si focalizza solo, piuttosto, sui casi in cui essa conduce a rapporti di causalità effettivamente vigenti tra due oggetti, cercando nei primi indizi rivelatori dei secondi. Questo, si dirà, è ovvio: fin dall’inizio della sua ricerca Husserl descrive sì il mondo fenomenico dell’esperienza comune, in cui trovano spazio anche inganni percettivi e illusioni, ma quello che intende chiarire sono le caratteristiche essenziali e le condizioni di possibilità dell’esperienza delle cose stesse, e dunque di cose veramente rispondenti al loro aspetto fenomenico, e non di fantasmi: nella prospettiva di Husserl ciò che conta non sono i fenomeni in quanto tali ma i fenomeni in quanto manifestazioni di una realtà oggettiva e veridica. Tuttavia, se ci si vuole attenere solo al piano dell’esperienza, convinti che in essa via siano già una forma propria e un sapere ad essa legato che aspetta solo di essere riconosciuto e dipanato dall’uomo, bisogna anche chiarire quali sono i criteri per stabilire quale esperienza empirica è veridica e mostra le cose per quello che sono e quale invece è fallace. Questo tema, di non facile soluzione, balza alla ribalta proprio con la causalità. Infatti, visto che i rapporti causali sul piano dell’esperienza si mostrano spesso in forme vaghe, imprecise, indecise, se lo scopo è quello di reperire nessi esatti, che possano essere legittimamente posti come cifra dell’esperienza oggettiva, per il fenomenologo bisogna muovere dal piano delle cose percepite a quello della “cosa della fisica”, luogo di relazioni causali perfettamente quantificabili, matematizzabili, formalizzate. Bisogna, cioè, spostarsi dal piano dell’esperienza a quello dell’idealizzazione, della pura forma, collocato al di là dell’esperienza stessa. Questo però significa che, se fin qui si era sottolineato unicamente il peso ontologico attribuito da Husserl all’esperienza sensibile, ora si potrebbe anche aver ragione di pensare che per lui, al contrario, quel che conta non sia l’esperienza tout court, visto che questa trova il suo coronamento in una dimensione che non le appartiene. Questa tesi, però, chiaramente non è priva di problemi poiché rischia di mettere in questione l’intero discorso di Husserl sulla cosa materiale considerata come prestrutturata e autonoma rispetto alle nostre attività di concettualizzazione, visto che la “cosa della fisica” che sembra compierla appartiene proprio al novero di queste ultime e non è certo reperibile nel mondo sensibile attorno a noi. La seconda parte di questo lavoro si concluderà, quindi, proprio con l’esposizione delle problematiche appena ricordate, che saranno in parte chiarite e in parte approfondite nelle loro difficoltà nella terza e ultima sezione, dedicata ai risvolti conoscitivi dell’indagine husserliana sulla cosa materiale. Con le questioni appena tratteggiate in relazione al rapporto tra cosa materiale e cosa della fisica e quindi tra esperienza precategoriale e sua formalizzazione concettuale, si è già mostrato, infatti, che la descrizione ontologica che Husserl fa della cosa materiale finisce per condurre, più che verso una descrizione dell’esperito, verso una definizione dei criteri con cui possiamo considerarne l’esperienza veridica o meno e con cui possiamo affermare di conoscere con esattezza e precisione che cosa esso sia. Questo, del resto, è anche testimoniato dal fatto che Husserl, dopo aver delineato le caratteristiche essenziali della cosa materiale, passa a interrogarsi sulla veridicità dell’esperienza sensibile che ha il compito di coglierla senza soluzione di continuità, senza segnalare il cambiamento di ambito così imposto al suo discorso. La trattazione del concetto di causalità mostra insomma, in altre parole, che l’indagine ontologica che Husserl mette in opera in Ideen II finisce ben presto per piegare verso una teoria della conoscenza e dunque verso uno studio di stampo più che altro gnoseologico. Ora, in un certo senso, questo metodologicamente non dovrebbe affatto stupire, anzi, è perfettamente consequenziale alla cornice metodologica e teorica in cui la descrizione della cosa materiale è inserita, visto che essa è posta all’interno di una teoria dell’esperienza e sempre guardata anche in relazione al soggetto che la coglie. A stupire e a creare, forse, qualche perplessità possono però essere le conseguenze di questo approccio. Come si vedrà nella terza parte di questo lavoro, essendo anche interessato alle condizioni di verità dell’esperienza della cosa materiale, Husserl si confronta innanzitutto con la veridicità dei sensi: posto che l’esperienza della cosa materiale è in correlazione con il soggetto esperiente in quanto dotato di un corpo senziente, bisogna infatti chiedersi, à la Descartes, come si possa prestar fede a ciò che si percepisce visto che i sensi possono sempre sbagliarsi. Di fronte a questi dubbi, il fenomenologo rende garanti della veridicità dell’esperienza prima l’insieme dei sensi di ogni individuo, poiché essi, lavorando normalmente all’unisono e restituendo immagini concordanti delle cose esterne, possono denunciare l’errore di uno tra loro, se c’è, e poi la comunità intersoggettiva degli uomini che, col loro mutuo accordo, fanno da cartina al tornasole della veridicità dell’esperienza di ciascuno. La certezza così raggiunta, però, per quanto del tutto adeguata sul piano della vita pratica, non coinciderebbe con una verità assoluta e inconfutabile: l’esperienza sensibile può sempre risultare ingannevole ed è in linea di principio possibile che un genio maligno ci abbia ingannati fin dai primi passi compiuti da Adamo ed Eva su questa terra dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre. L’intera comunità umana, in altre parole, potrebbe essere da sempre radicalmente in errore, tanto che nessuno, né nel presente né dal passato, sarebbe in grado di smentire eventuali false opinioni del singolo o dei più. Quella della comunità intersoggettiva è dunque una certezza traballante, non impossibile da refutare. È per questo, allora, che torna qui ancora alla ribalta, con tutta la sua scia di problematiche, la “cosa della fisica”, e cioè la cosa considerata tramite idealizzazione, soltanto in relazione alle sue caratteristiche quantificabili, matematiche, inconfutabili nella loro esatta misurabilità, mentre il suo côté qualitativo è lasciato cadere, con la correlata perdita di tutta la ricchezza di sfumature e varietà qualitative che l’esperienza racchiude. Dal punto di vista gnoseologico, dunque, sembra inevitabile che il sigillo ultimo dell’esperienza sensibile debba infine travalicare l’esperienza sensibile stessa. Infatti, per quanto l’esperienza fornisca i materiali alla conoscenza e ne sia la base, se si vuole comprendere, conoscere e dare una definizione delle proprietà e dei nessi universali delle cose sensibili non ci si può attenere semplicemente ad essa, in tutta la sua contingenza, fallacia e mutevolezza: le proprietà e i nessi tra proprietà delle cose, per essere universali, devono essere fissi, invariabili, prevedibili e oggettivamente studiabili, dunque chiedono, per essere compresi e formulati, che si abbandoni il piano dell’empiria che la semplice esperienza ha di mira. Ora, se questi sono il metodo e il fine del discorso husserliano sulla cosa materiale, è chiaro che esso non è privo di problematiche, collocabili su due diversi piani. Innanzitutto, come alcuni commentatori hanno fatto notare, da un punto di vista epistemico non è affatto scontato e inconfutabile che le idealizzazioni con cui opera la scienza, tra cui rientra la cosa della fisica, affondino le loro radici nel mondo dell’esperienza e siano poi trasposte su un diverso piano. Non è affatto detto, cioè, che sul piano dell’idealizzazione si possano sempre trovare le risposte agli interrogativi posti su quello dell’esperienza: può essere che la scienza, banalmente, si occupi in parte di qualcosa di diverso. Infatti si può anche osservare che – ed è questo punto ad assumere maggior rilevanza nel presente lavoro – evidentemente la cosa materiale, in quanto elemento base dell’esperienza sensibile, e la cosa della fisica, in quanto sua formalizzazione, si collocano su due piani o, per dirla alla Husserl, in due regioni ontologiche ben distinte, che mettono capo a due tipi di saperi diversi – la certezza pratica e intersoggettiva tipica dell’esperienza irriflessa e la conoscenza oggettiva e universale e necessaria tipica della scienza –, ma non è del tutto chiaro come il fenomenologo le metta in relazione. Non è chiaro, cioè, se le intenda come facenti capo a due tipi di prassi umane e di saperi distinti e paralleli, aventi semplicemente metodi e scopi differenti, o se intenda la cosa materiale come una base per la cosa della fisica destinata ad essere superata ed inverata da quest’ultima: Husserl sembra piuttosto oscillare ripetutamente tra queste due posizioni. Di certo è chiaro che se la sua scelta è quella di risolvere la cosa materiale nella cosa della fisica, questa scelta non risulta condivisibile in relazione ai presupposti e agli scopi del suo stesso lavoro: se lo scopo è quello di dare una descrizione ontologica degli oggetti dell’esperienza, il volgersi alla cosa della fisica può assumere il volto insoddisfacente di una fuga poiché quest’ultima, pur potendo garantire un’oggettività perfetta e una perfetta conoscibilità dei suoi oggetti, tralascia inevitabilmente tutte quelle caratteristiche di varietà e ricchezza qualitativa che costituiscono lo spessore dell’esperienza sensibile stessa. Si mostrerà insomma come la nozione di cosa della fisica rischia di far cadere in contraddizione l’intero discorso di Husserl sulla cosa materiale, al cui centro sembravano posti, almeno fino al subentrare di questa nozione, la valenza gnoseologica e il peso ontologico proprio dell’esperito già a livello precategoriale. Per mettere a fuoco questo punto, allora, si riprenderanno in particolare le critiche di chi ha visto in questo il segno di una predilezione, eccessiva in un contesto come quello di Ideen II, per il sapere piuttosto che per la descrizione dell’esperienza e quelle di chi, più radicalmente, ha letto il ricorso alla cosa della fisica come una prova del fatto che Husserl, tacitamente, di fatto descrive gli stessi oggetti esperiti a livello precategoriale come se fossero costituiti a partire dal nostro sistema concettuale – e in particolare dai nostri paradigmi scientifici – pur dichiarando di credere il contrario. Attraverso queste obiezioni e alcune possibili risposte e revisioni formulabili nei loro confronti, si tenterà nuovamente di mettere in luce, in chiusura di questo lavoro, sia la ricchezza sia le possibili difficoltà della descrizione della cosa materiale proposta in Ideen II, cercando di sostenere che entrambe – ricchezze e difficoltà – si spiegano col fatto che questa indagine si dipana sempre in bilico tra una descrizione dell’esperito, tesa a evidenziarne la dignità ontologica, nonché la ricchezza e la varietà qualitativa, e il bisogno conoscitivo di definirne quelle caratteristiche oggettive, universali, necessarie e formali che permettono di afferrarlo conoscitivamente in maniera assolutamente sicura, vera e incontrovertibile.en
dc.language.isoItalianoen
dc.publisherUniversità degli Studi di Parma. Dipartimento di Filosofiaen
dc.relation.ispartofseriesDottorato di ricerca in Filosofia e Antropologiaen
dc.rightsChiara Colombo, © 2009en
dc.subjectHusserl, Ideen IIen
dc.subjectMaterial thingsen
dc.subjectHusserl's philosophyen
dc.titleLa "cosa materiale". Tra esperienza e conoscenza nel II volume delle Idee di Edmund Husserlen
dc.typeDoctoral thesisen
dc.subject.soggettarioHusserl, Edmunden
dc.subject.miurM-FIL/01en
dc.description.fulltextopenen
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